SGUARDI E PAESAGGIO DELL'ATTESA
di Alessandro Nicoloso
28 Maggio – 8 Agosto 2010
Fare fotografia è un modo di guardare il mondo; frapporre tra sé e la realtà il dispositivo fotografico è una forma di esercizio, una disciplina dello sguardo che permette di vedere meglio: talvolta più profondamente, altre volte cogliendo nessi e rimandi tra le cose che, a occhio nudo e immersi nel fluire della vita, non si riescono nemmeno a vedere. L'immagine fotografica,
in quanto prodotto di questa pratica, rende visibile ad altri lo sguardo che il fotografo getta sul mondo, il suo modo di vedere le cose e di leggere la realtà. Ogni fotografia dunque ci restituisce, insieme, l'oggetto guardato e la soggettività dello sguardo che lo inquadra, lo mette a fuoco, lo cattura.
Lo sguardo che Alessandro Nicoloso getta sul mondo, e che queste fotografie ci rendono visibile insieme all'oggetto su cui si posa, è caratterizzato da alcuni tratti riconoscibili: innanzitutto è uno sguardo empatico, che entra in sintonia emotiva con la realtà sull'onda di un interesse umano, di una curiosità talvolta appassionata, che sembra condividere la stessa condizione, gli stessi limiti, le stesse potenzialità di ciò –e di chi- gli sta di fronte.
In secondo luogo è un guardare aperto al riconoscimento, attento cioè a cogliere il momento di una possibile epifania, di un disvelamento, di un sovrapporsi contingente e apparentemente casuale di elementi che apre a un sovrappiù di senso: segni che si combinano per un istante a produrre l'ipotesi di un significato. La fotografia funziona allora come un cortocircuito, e il senso -che nella realtà sta sempre “più in là”- diviene improvvisamente manifesto e visibile.
Infine, è uno sguardo che sa colorarsi di buon umore, di leggerezza e ironia: lo sguardo di chi sa che il mistero, nel suo imprevedibile affacciarsi attraverso le cose, è spesso sorprendente e, qualche volta, burlone.
Ma non per questo è uno sguardo ingenuo: Nicoloso fa sua la lezione di altri sguardi prima di lui. In particolare si avverte la familiarità con i grandi autori classici, soprattutto del periodo compreso fra gli anni Trenta e gli anni Settanta del secolo scorso, i francesi (Cartier Bresson, Doisneau), alcuni europei trapiantati in America, soprattutto quando tornano a guardare all'Europa (Erwitt), alcuni italiani (Berengo Gardin, Merisio, Giacomelli). Il loro insegnamento si riflette nel modo di concepire la fotografia e, soprattutto, nella proprietà della tecnica, a partire dalla scelta degli apparecchi -Rolleiflex biottica, Leica M.
Ne consegue un'opzione coerente per un bianco e nero rigoroso ed equilibrato, sostenuto da una tecnica sicura ma mai fine a se stessa. Niente virtuosismi, niente trucchi, niente forzature. Il gusto per le luci e le ombre, e per la loro armonia.
Due parole, infine, sui soggetti di queste fotografie: luoghi e volti, il che non significa paesaggi e ritratti (cioè riferimento di genere) ma due esiti simili dello stesso modo di guardare il mondo, animato e inanimato. Uno spazio che, anche quando naturale, rinvia alla presenza/assenza di chi lo ha abitato e lavorato (e dunque un luogo), persone che abitano i luoghi, radicandosi in essi, ciascuna con una storia da raccontare e da ascoltare (e dunque un volto). Ma anche luoghi e volti che si integrano a vicenda: le sculture del Museo Rodin e i loro visitatori, figure umane che attraversano per un istante l'orizzonte o si affacciano a una finestra, paesaggi urbani dominati dai volti, fuori misura, di una comunicazione pubblicitaria eccessiva e un po' metafisica. Un gioco di sguardi in cui, a volte, i ruoli di chi guarda e chi è guardato si invertono, coinvolgendo lo spettatore in una piccola, salutare, vertigine.
Piermarco Aroldi
Università Cattolica
Fare fotografia è un modo di guardare il mondo; frapporre tra sé e la realtà il dispositivo fotografico è una forma di esercizio, una disciplina dello sguardo che permette di vedere meglio: talvolta più profondamente, altre volte cogliendo nessi e rimandi tra le cose che, a occhio nudo e immersi nel fluire della vita, non si riescono nemmeno a vedere. L'immagine fotografica,
in quanto prodotto di questa pratica, rende visibile ad altri lo sguardo che il fotografo getta sul mondo, il suo modo di vedere le cose e di leggere la realtà. Ogni fotografia dunque ci restituisce, insieme, l'oggetto guardato e la soggettività dello sguardo che lo inquadra, lo mette a fuoco, lo cattura.
Lo sguardo che Alessandro Nicoloso getta sul mondo, e che queste fotografie ci rendono visibile insieme all'oggetto su cui si posa, è caratterizzato da alcuni tratti riconoscibili: innanzitutto è uno sguardo empatico, che entra in sintonia emotiva con la realtà sull'onda di un interesse umano, di una curiosità talvolta appassionata, che sembra condividere la stessa condizione, gli stessi limiti, le stesse potenzialità di ciò –e di chi- gli sta di fronte.
In secondo luogo è un guardare aperto al riconoscimento, attento cioè a cogliere il momento di una possibile epifania, di un disvelamento, di un sovrapporsi contingente e apparentemente casuale di elementi che apre a un sovrappiù di senso: segni che si combinano per un istante a produrre l'ipotesi di un significato. La fotografia funziona allora come un cortocircuito, e il senso -che nella realtà sta sempre “più in là”- diviene improvvisamente manifesto e visibile.
Infine, è uno sguardo che sa colorarsi di buon umore, di leggerezza e ironia: lo sguardo di chi sa che il mistero, nel suo imprevedibile affacciarsi attraverso le cose, è spesso sorprendente e, qualche volta, burlone.
Ma non per questo è uno sguardo ingenuo: Nicoloso fa sua la lezione di altri sguardi prima di lui. In particolare si avverte la familiarità con i grandi autori classici, soprattutto del periodo compreso fra gli anni Trenta e gli anni Settanta del secolo scorso, i francesi (Cartier Bresson, Doisneau), alcuni europei trapiantati in America, soprattutto quando tornano a guardare all'Europa (Erwitt), alcuni italiani (Berengo Gardin, Merisio, Giacomelli). Il loro insegnamento si riflette nel modo di concepire la fotografia e, soprattutto, nella proprietà della tecnica, a partire dalla scelta degli apparecchi -Rolleiflex biottica, Leica M.
Ne consegue un'opzione coerente per un bianco e nero rigoroso ed equilibrato, sostenuto da una tecnica sicura ma mai fine a se stessa. Niente virtuosismi, niente trucchi, niente forzature. Il gusto per le luci e le ombre, e per la loro armonia.
Due parole, infine, sui soggetti di queste fotografie: luoghi e volti, il che non significa paesaggi e ritratti (cioè riferimento di genere) ma due esiti simili dello stesso modo di guardare il mondo, animato e inanimato. Uno spazio che, anche quando naturale, rinvia alla presenza/assenza di chi lo ha abitato e lavorato (e dunque un luogo), persone che abitano i luoghi, radicandosi in essi, ciascuna con una storia da raccontare e da ascoltare (e dunque un volto). Ma anche luoghi e volti che si integrano a vicenda: le sculture del Museo Rodin e i loro visitatori, figure umane che attraversano per un istante l'orizzonte o si affacciano a una finestra, paesaggi urbani dominati dai volti, fuori misura, di una comunicazione pubblicitaria eccessiva e un po' metafisica. Un gioco di sguardi in cui, a volte, i ruoli di chi guarda e chi è guardato si invertono, coinvolgendo lo spettatore in una piccola, salutare, vertigine.
Piermarco Aroldi
Università Cattolica